Ecco
l’uomo, che cerca sempre di essere “da un’altra parte”, di
distogliere lo sguardo, disinteressarsi, di far dire di no a qualcun
altro, di non voler saperne dell’emotività di chi gli sta di
fronte, almeno che non lo renda superiore.
Del resto, non si può
pretendere che un soggetto scelga tra una persona, che non sa usare
professionalmente tecniche di coinvolgimento, carisma, eloquenza,
loquacità, fascino e un telefono, che è sempre più basato
sull’impatto emotivo dell’acquirente; spot brevissimi che vanno a
pescare nel cervello primitivo e a far leva su istinti spesso inconsci, sulla volgarità intellettuale che
segretamente si desidererebbe esprimere a qualcuno, l’umorismo
becero o poco profondo, o addirittura razzistico (in tutti i sensi).
E questo per fuggire a una gabbia emotiva che ci siamo scelti, che
abbiamo cercato e non abbiamo risolto, non risolviamo, anche mentre
ci siamo dentro a causa del nostro sdoppiamento inconscio. Può
essere una cena al ristorante, la sera col fidanzato, un incontro di lavoro, un pranzo in famiglia,
al bar con un amico, ecc. Un problema che c’era anche con la
televisione, ché andava a congelare rancori, incomprensioni, silenzi,
intolleranze: almeno non l’avevamo in mano, o in tasca, come lo
smartphone e ci sottraeva dall’onanismo digitale che adesso si usa
per fare gli snob, per comunicare che siamo “qualcuno”, ma anche
per non far fatica a capire chi abbiamo davanti e non doverci
accorgere che è come noi. Questa è un’interpretazione di quello
che oggi è chiamato
phubbing.
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